Estate 2009 – alla conoscenza del Territorio

Vari gruppi di amici e associati sono andati per il nostro Basso Piave ad osservarne le caratteristiche e ognuno ha ottenuto soddisfazione nel conoscere meglio ciò che ha potuto incontrare.

Tra le escursioni più significative è risultata quella effettuata con l’amico Don Ivanir Rampon, brasiliano di origini venete.

Il suo racconto dal titolo:

Una gita nell’antica palude del Basso Piave

Mercoledì, 14 luglio 2009, in una caldissima ed afosa giornata, con il signor Cibin e altri amici di un’Associazione che tende a promuovere la cultura del Basso Piave – siamo andati a far un giro con l’obiettivo di conoscere questo territorio, soprattutto in relazione alla ex-palude che ne ha determinato le principali caratteristiche identitarie.

Questa associazione, appunto, è l’associazione “G.R.I.L. Basso Piave” – “Gruppo di Ricerca Identitaria e Linguistica” – che svolge le proprie ricerche in un territorio situato a nord-est della regione Veneto, nell’ultimo tratto dei fiumi Piave e Livenza. Per ulteriori e più dettagliate spiegazioni, è possibile consultare il sito di questa associazione all’indirizzo: www.grilbassopiave.it.

Da varie ricerche, svolte dai componenti di questa associazione, si evince che questo territorio è stato abitato fino alla seconda guerra mondiale in prevalenza da persone con un tipo di mentalità e cultura veneta un po’ diversa da quella degli abitanti del resto della regione Veneto. Questa diversità era determinata dalla diversa natura del territorio di palude, che lo differenziava molto dai territori di pianura o di montagna, di cui è composta la Regione Veneto; questa gente si distingue altresì da quegli individui che hanno una cultura ed un’identità marinara o d’acqua salata, come pure da quelli che, abitando a nord del fiume Livenza, sono caratterizzati dall’influenza identitaria di tipo asburgico.

Secondo ciò che mi ha spiegato il signor Cibin, la popolazione della palude un tempo, viveva principalmente con le risorse date dall’esercizio della pesca, da un po’ di caccia e dalla “piccola”, ma particolarmente ingegnosa, agricoltura che gli individui, con le loro famiglie, riuscivano a fare sui limitati spazi dati da rade alture che, sia pur di poco, emergevano nell’ambiente “anfibio” come quello di palude.

La gente di palude aveva un particolare e proprio codice di condotta, non aveva il concetto di proprietà privata come normalmente lo intendiamo noi oggi. La morte era accettata e faceva parte del loro concetto della vita; il tasso di mortalità infantile era alto e la morte, soprattutto quella prematura, era una costante.

Tra le molte particolarità che il signor Cibin mi ha raccontato di aver acquisito a questo riguardo, significativo è il fatto che una parte di queste persone, un tempo, non veniva neppure registrata nei registri comunali; talvolta, quando morivano dei feti o dei bimbi appena nati, venivano semplicemente seppelliti dagli stessi componenti della famiglia vicino al fosso, a lato dell’orto famigliare. Questi episodi fanno parte dei personali ricordi di persone ancora viventi.

Gli individui di questa società di palude avevano un grande rapporto di tipo interattivo con l’ambiente; questo era percepito e soprattutto “sentito” attraverso l’odore, il tatto, il rumore e il silenzio, lo sviluppo della vita ecc., e andava ad integrare e a completare la loro comune visione delle cose.

Questa gente riteneva che la natura rispondesse in conseguenza a tutto ciò che si faceva: se l’azione umana era buona, la natura rispondeva positivamente, se non lo era a sufficienza, allora il risultato sarebbe stato sicuramente negativo.

Questa logica di pensiero, assieme ad un’innata apertura verso le innovazioni, fu una delle ragioni dell’atteggiamento passivo di fronte alla modifica dell’ambiente di palude, messa in atto con la bonifica del territorio.

Un altro elemento caratteristico di questa gente era la netta separazione degli ambiti e dei ruoli tra l’uomo e la donna.

L’uomo era il titolare rappresentante della famiglia e ne garantiva la dovuta difesa; era inoltre preposto all’introduzione in ambito famigliare di tutte le risorse che erano ritenute necessarie al suo sostentamento. Solo su richiesta e con il consenso della donna egli svolgeva talune prestazioni in ambito domestico.

La donna, quale interprete e determinante artefice della volontà Divina nel “procurare” la vita, era considerata individuo centrale nel nucleo famigliare e così pure in seno alla società. Era portata ad operare in ambito domestico come pure nella cura e nel governo degli individui che formavano la famiglia e perciò veniva ritenuta responsabile e, in quanto titolare del suo ruolo, preposta alla gestione di ciò che riguardava la salute, la giusta e armonica distribuzione delle risorse, il rassetto dei beni riguardanti tutti gli individui che formavano la sua famiglia, nonché la formazione e l’allevamento della propria prole.

La donna serviva il cibo ed era l’ultima a mangiare, non per servilismo, ma per accudire nel migliore dei modi e sostenere soprattutto il suo uomo quale “fornitore di servizi”.

Fin da piccolo, il ragazzo era educato per divenire il ‘fornitore’ e la ragazza per garantire dell’ordine della famiglia.

Socialmente, per ciò che riguardava il matrimonio, era considerata inconcepibile la poligamia, l’infedeltà o l’abbandono di chi risultava bisognoso di cure. L’espletamento dell’esercizio della propria sessualità era un impegno ed un dovere contratto con il matrimonio ed il sesso era visto solo come un mezzo, non certo l’ideale origine di una nuova vita.

La donna, nel rapportarsi con il proprio marito, si sentiva in dovere di soddisfare le sue naturali esigenze psicofisiche mentre, per l’uomo, era inconcepibile la mancanza di rispetto verso le proprie donne (madre, moglie, figlie …).

Solo nei centri urbani, dove si insediava chi era preposto alla gestione del territorio e ancor di più nelle povere e misere periferie dove regnava ogni tipo di ristrettezza e promiscuità, si verificava un’estrema e spregevole caduta di questi valori.

Una bassa percentuale di persone che vivevano nella palude del Basso Piave raggiungeva la vecchiaia e la tarda età non era certo simile a quella riscontrata tra noi al giorno d’oggi.

Virtualmente, l’anziano si proiettava nella “sua” discendenza, quella che fin da giovane aveva cercato e voluto con il proprio matrimonio e, una volta assunto effettivamente questo ruolo, il suo impegno in ambito sociale era teso a garantire la comune trasmissione identitaria.

Per quanto riguarda l’aspetto religioso, sembra che l’inserimento della religione cattolica, in questi luoghi abbia fatto seguito all’acquisizione, da parte della proprietà, della gestione dei terreni resi produttivi dalle opere di bonifica effettuate.

Nel corso dei rilievi fatti e durante l’analisi effettuata sulle osservazioni di tipo antropologico che il signor Cibin e l’associazione G.R.I.L. Basso Piave, per anni, hanno svolto sulla realtà sociale, sorprende il particolare livello di sincretismo che sembra, per certi aspetti, ancor oggi resistere. All’inizio del secolo scorso questa società di palude riusciva a discernere tra ciò che la fede evangelica donava e ciò che con essa era identitariamente trasportato come, ad esempio la mentalità patriarcale latina e mediterranea impostata sul possesso della famiglia e dei beni. Questa fede veniva integrata con tutta una serie di credenze che sembrano scaturire dalla personale inter-azione con la naturalità del territorio.

Era un complesso modo di interpretare tutto quel che risultava essere inerente al concetto di ciò che era divino. Nelle loro conoscenze, queste persone comprendevano tutta quella serie di divinità, in prevalenza greche che, poste in continuità con la credenza mitologica dell’origine dell’universo e molto in sintonia con la parte relativa alle dee madri, metteva insieme il mito olimpico, riconosciuto un tempo in Grecia, con quello pelasgico, senza tralasciare la variante omerica o quella dell’orfismo.

Tutti concetti che affondano le proprie radici nella notte dei tempi e che queste persone si sono tramandate in modo orale e preciso per vari millenni fino al secolo scorso.

La gente di palude è stata interessata dal fenomeno migratorio (Brasile, Argentina, Stati Uniti, Canada, Australia ecc.) distinguendosi poiché, con questa loro mentalità, sentivano diversamente l’interesse venale per i terreni coltivabili o per la cuccagna (termine usato tuttora dagli emigranti italiani e che rappresenta la fortuna facile) come la gente che un tempo viveva a Padova, Vicenza, Venezia, Belluno, Trento, ecc.

La terra, dove la gente di palude viveva, non era e non veniva neppure considerata di propria esclusiva proprietà.

Le proprietà in senso stretto appartenevano soprattutto a nobili che vivevano in altri luoghi, come Venezia, Treviso, Padova, ecc.

Apparvero allora gli imprenditori che acquistavano il terreno ad un prezzo molto basso perché, essendo in aree di palude, non era considerato produttivo e, di conseguenza, non aveva il valore degli altri terreni coltivabili. Ed è così che, già dal milleottocento, iniziò il processo di bonifica messo in atto prima da imprese private e poi in associazione con enti istituzionali.

Usufruendo all’inizio di alvei fluviali già esistenti, si costruì poi tutta una serie di sistemi di drenaggio e d’irrigazione delle acque.

Il territorio venne così trasformato da una serie di scoline, fossi, canali e grossi collettori tutti eseguiti da operai salariati che inizialmente, e in prevalenza, provenivano da territori limitrofi, come Meolo, nel vicino trevigiano.

Molte persone della palude furono attratte dal salario guadagnato facendo il “badilante” o lo “scariolante”. Allo stesso tempo, bisogna tenere nella giusta considerazione l’alta mortalità dovuta a quell’insano ambiente di lavoro.

In questo modo e con queste condizioni, è stata messa in atto una bonifica relativa ad una grande estensione geografica, con moderne macchine che drenano e mandano l’acqua verso il mare. Dal punto di vista tecnico, questo sistema di idrovore risulta essere molto interessante: lasciano scoperti dall’acqua vasti territori che sono sotto il livello del mare, anche se l’acqua dei canali collettori è al di sopra della terra arabile.

Se per un qualsiasi ipotetico motivo, il complesso sistema gestito dai consorzi di bonifica dovesse interrompere il lavoro, la maggior parte del territorio sandonatese andrebbe pressoché sott’acqua.

La terra dell’antica palude risulta essere molto fertile e, se il sistema messo in atto funziona a dovere, per l’agricoltura non dovrebbero esserci problemi di irrigazione nemmeno con la siccità.

L’antica popolazione della palude non ha risposto in modo negativo agli investimenti e alla trasformazione messa in atto dagli imprenditori perché credeva che la natura stessa avrebbe dato un’adeguata risposta: se positiva, era perché il progetto era stato ritenuto “buono”, se negativa perché era stato inadeguato.

Molteplici furono i motivi per cui individui che appartenevano alla popolazione della palude venivano estromessi dal loro amato territorio di palude, primo fra tutti la modifica della struttura del genogramma famigliare. Allorquando, per vari motivi, come quelli derivati da carestie, pestilenze, guerre, ecc., il numero dei componenti della famiglia si riduceva o la loro qualità non risultava essere produttivamente adeguata alla sufficiente gestione del lavoro per il minimo necessario al vivere normale, gli individui dovevano andarsene e, “spinti” dalla necessità, andavano a vivere nella cinta periferica cittadina, ponendosi in una condizione di promiscuità, nel furto e in tutte le altre degenerazioni provocate da questi terribili ambienti.

Sia pur a fatica, diventavano lavoratori che si inserivano nell’agricoltura, nelle aziende artigiane, quando non decidevano di intraprendere la vita di lavoratore pendolare nei centri industriali di Mestre o, più lontano ancora, in quelli di Monfalcone nel “vicino” Friuli Venezia Giulia.

C’era qualcuno che, per procurare “un pezzo di pane” alla propria famiglia, partiva ogni domenica sera, in sella ad una sua vecchia bicicletta, sulle spalle, quale strumento di lavoro, portava la propria carriola di legno e nel cuore la gioia del suo prossimo ritorno a casa che sarebbe avvenuto nel cuore della notte che precedeva la domenica successiva.

L’estrema durezza, dovuta al superamento di tali disumane condizioni, portava l’uomo (che ormai non era più considerato totalmente di palude) ad un ingrato stile di vita, per il quale veniva pure disprezzato dagli altri abitanti della regione.

Spesso, ancor oggi vediamo esternata l’ignoranza di molti che disprezzano l’intraprendenza e l’abnegazione di chi, in questo territorio, cerca di migliorare le condizioni di vita dei propri famigliari con l’impegno nel lavoro festivo o extrasalariale. Forse, queste persone non si ricordano più che non vi è casa, sorta negli anni Cinquanta o Sessanta, che non sia stata costruita col pesante sacrificio dedicato, in questo modo, al riscatto della nostra gente.

Dopo la seconda guerra mondiale e nei decenni seguenti relativi al grande sviluppo economico, con immensa intraprendenza, escogitando, studiando e inventandosi particolarità solo a noi peculiari, con pari dignità di abitanti di altre aree del mondo, la gente del Basso Piave si è agevolmente inserita nella vita sociale anche a livello planetario.

Oggi buona parte dei discendenti di questo territorio ignora le proprie origini e la propria storia. Tuttavia, secondo Cibin che si onora delle sue origini di palude, questo sta ancora ben inciso negli archetipi dell’inconscio individuale: l’Associazione si impegna proprio per far emergere questa storia, dimenticata nella coscienza ma presente nelle abitudini, nei costumi, nei pensieri. Egli mi ha chiesto, per esempio, di fare un disegno di un capitello. Interpretando il disegno che ho fatto (rettilineo, con il tetto di forma triangolare, sopra avevo posto una grande croce, mentre non avevo distinto o evidenziato se l’immagine racchiusa all’interno apparteneva a un santo o a una santa), diceva che rivelava l’influenza del cristianesimo e della mentalità patriarcale, portata nei secoli dalle genti romane e latine come accessorio nel mio originario territorio di pianura.

Se fossi stato un uomo di palude, con molta probabilità avrei messo in evidenza inconsciamente l’elevazione ed il sostegno maschile offerto all’elemento sacro, rappresentato dal simbolo della donna, sulla parte superiore della colonna, simbolo di albero o tronco di sostegno, avrei posto l’immagine della Madonna (che, nella sua completezza è madre, moglie e figlia) dentro la protezione di una “casa”, con una copertura che avrebbe richiamato la rotondità (come del resto erano le case di palude). Probabilmente, come al tempo della mitologica dea Rea o Reitzia, non avrei posto alcun segno inerente al sangue, al sacrificio o al feto, ma molto probabilmente avrei arricchito il tutto con dei fiori o “materiale” derivante dalla stupenda naturalità di quel creato in cui l’infinita benevolenza di Dio ci ha posto tutti.

Un altro aspetto molto interessante, e da tener in giusta considerazione, è che la società non era assolutamente di tipo patriarcale (tipica della pianura), ma neppure di tipo matriarcale, almeno non in linea verticale diretta.

Si potrebbe quasi azzardare che la società era fondata su una specie di tribalità in cui la trasmissione di carattere identitario avveniva prevalentemente da suocera a nuora. Quest’ordine di valori, oltre dai comportamenti riconosciuti e dei quali vi era una comune e condivisa accettazione da parte di tutto il nucleo famigliare, veniva evidenziato anche da una serie di precisi simboli messi in atto nei più significativi momenti della vita in comune. Tra i più significativi vi era il dono dello ‘zinale’ (a travèssa), fatto dalla novella sposa alla suocera nel momento in cui cominciava ad rivolgersi a lei chiamandola con il nome di MAMMA, mentre quando parlava con altri la nominava MADONA. Questo era visto come un simbolo del suo porsi al servizio della continuità e dell’integrità famigliare.

A sua volta, dopo la morte naturale dell’anziana, l’anello della suocera, quale simbolo della detenzione del fondamentale ruolo svolto dalla matriarca, passava alla nuora che le succedeva nello stesso ruolo.

La donna di palude stava al servizio nell’origine della vita (concetto che proviene dalla sua ascendenza); non era la sola maternità a fondare la società matriarcale, ma la femminilità quale simbolo di sicurezza e di continuità sociale e famigliare.

In generale, nei disegni della gente dell’antica palude Maria non è quasi mai rappresentata in cinta e poche volte con il Figlio fra le braccia, mentre spesso viene messa in relazione a tutto ciò che rappresenta la bellezza della vita, la purezza e la sicurezza del creato, come ad esempio i fiori, la vegetazione, le stelle, ecc.

Di tutto questo, il signor Cibin mi ha detto che poco è stato documentato o scritto al riguardo alla storia del territorio al quale lui stesso appartiene, perché il popolo della Palude conosceva poco la scrittura e solo in rari casi ne esercitava l’uso. Inoltre, la tendenza alla mimetizzazione portava gli individui a riservare questi aspetti solo a chi poteva appartenere appieno alla loro società e la modifica dell’ambiente originale è stata accompagnata anche dalla distruzione della coscienza di essere popolo della palude.

Tutto questo mi è stato raccontato dal signor Cibin durante una gita nell’area dell’antica palude del Basso Piave, mentre mi indicava tutta quella serie di luoghi, visti da particolari punti di osservazione, che mi hanno messo in evidenza elementi caratteristici: se studiati ed opportunamente analizzati, essi possono offrire forti emozioni nello scoprire realtà ormai quasi del tutto sconosciute.

50-passeio-pallude-750-passeio-pallude-8La vista di una sì grande distesa di terreno e il rendermi conto che è potenzialmente allagabile; il poter osservare il mastodontico lavoro di bonifica svolto nel corso di parecchi anni sul territorio di palude; il poter “toccare con mano” la potenza delle molte idrovore – opportunamente poste a svolgere il loro essenziale lavoro di salvaguardia di un territorio così particolare, caratterizzato dall’intreccio dei suoi innumerevoli corsi d’acqua;

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ma, soprattutto, la presa di coscienza da parte mia dell’esistenza di una società che si è gestita e ha vissuto attraverso i millenni nella precarietà dell’ambiente di palude, è stata un’esperienza che ha affinato in me la conoscenza di ulteriori particolarità della Regione Veneto da cui provengono i miei nonni, esperienza che auguro a molti di poter fare.

Sempre con il signor Cibin ho avuto modo andare in un museo e, avendo avuto modo di parlare anche con parroci e sacerdoti della zona, ho potuto osservare che la Chiesa Cattolica fu vicina al popolo della palude in molte maniere.

sdc10470In un primo momento si avvicinò facendo piccole chiese e sviluppando lo spirito di comunità.

Dopo la bonifica, essa fu una presenza molto vicina ai più bisognosi, ponendo l’istituzione ecclesiale, col proprio operato, al servizio della promozione umana e cristiana.

Il territorio, caratterizzato da terre recentemente bonificate e quindi, ben coltivate e assai fertili, era molto produttivo, mancava, però, dei più elementari servizi sociali e religiosi; in quel periodo, più di un sacerdote diede esempio di sacrificio e dedizione nei confronti della gente del territorio di palude.

Uno fra i parroci più amati da questa gente fu Don Antonio Zanotto; egli diceva che quella palude si sarebbe trasformata in un ridente giardino.

Infatti, il territorio, che a quel tempo veniva chiamato “i confini di San Donà”, è diventato la “Parrochia di Santa Maria di Piave”, una comunità che tuttora conta sulla protezione della Madonna.

Don Antonio spesso diceva in dialetto del Basso Piave: “El Signor salva tuti par mezo de ’a Madonna… confession e comunion anca tuti i jorni”.

Sembra che il popolo della palude abbia trovato in Don Antonio – ma anche in Don Giovanni Bertola e in tanti altri – una persona che fu missionario “dei lontani”, un apostolo cui il Signore ha dato il carisma per poter consolare tante persone, aiutandole a vivere la fede in Cristo, acqua viva che sazia la nostra fede!

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