TRADIZIONI NEL BASSO PIAVE: LA MACELLAZIONE DEL MAIALE

 

di Pierluigi Cibin – Aidi Pasian

 

Documentazione tratta da numerose interviste fatte a persone anziane, discendenti da famiglie residenti da ben oltre un secolo nel territorio del Basso Piave e all’interno delle quali è vissuto più di qualche componente che ha esercitato con maestria l’arte del norcino.

Un particolare e doveroso ringraziamento va rivolto a Gina Balduit e Luigi Stefanetto.

 

Diversamente dai campi e dalle stalle l’ambito domestico, che comprendeva gli animali da cortile come pure i maiali, era gestito sia come allevamento sia come macellazione prevalentemente dalle donne. Solo laddove la mole del lavoro o dell’animale lo richiedeva, l’uomo interveniva offrendo il suo supporto. La mole del maiale, agli effetti della macellazione, richiedeva appunto l’apporto di vari uomini.

L’uso della carne degli animali richiedeva un percorso molto impegnativo che andava gestito durante tutte le fasi, dalla nascita, alla di crescita, all’ingrasso degli animali e si concludeva con la fruizione dei risultati da parte della famiglia.

Da questo nasce il fatto che i giorni dedicati alla macellazione costituivano un evento molto significativo proprio perché evidentemente inerente al primario supporto alla vita.

Per quanto riguarda il maiale, quando in autunno la temperatura nel territorio cominciava a scendere sotto lo zero, e cominciavano i primi ghiacci, iniziava la programmazione per la macellazione del maiale.

All’interno dell’ambito domestico le donne preparavano degli spazi adeguati alle varie lavorazioni, come pure provvedevano alla pulizia di tutto quello che occorreva durante la complessa e articolata operazione. Gli uomini, invece, avevano l’onere di acquistare le budella di bovino, lo spago e quanto altro occorreva alla salatura e alla concia delle carni da insaccare. Allo stesso tempo, per quanto riguarda l’uso di specifiche attrezzature, come ad esempio il tavolaccio e la macchina per macinare la carne, di norma, venivano presi in prestito da chi forniva tutto il suddetto necessario (nello specifico, il casoìn, la drogheria di generi alimentari, successivamente chiamata anche ‘generi coloniali’).

Per l’intero procedimento della macellazione erano previste due giornate ma, per alcuni prodotti, molti preferivano terminare il lavoro qualche giorno dopo, per dar la possibilità ad alcune carni destinate all’ossocollo, alla pancetta, etc., di poter rilasciare la maggior parte degli umori contenuti (liquidi di colatura), che potenzialmente potevano essere dannosi alla successiva conservazione.

Il lavoro iniziava con la pulizia di una robusta carriola piana, sulla quale veniva fortemente ancorata normalmente una porta altrettanto ben lavata; su quest’ultima si doveva poi adagiare l’animale e, di buon mattino, si cominciava a riscaldare, fino a portarla ad ebollizione, l’acqua contenuta all’interno di una caldera molto capiente (normalmente usata per produrre la liscivia), già predisposta sul trespolo; in tempi più recenti sul medesimo trespolo veniva messo un bidone (di quelli usati per gli idrocarburi, al quale veniva asportato la parte superiore e, così aperto, faceva le funzioni della caldera di un tempo).

Quando tutti gli uomini preposti erano giunti e a disposizione, iniziava il lavoro.

Il norcino, usando una fune corta ad un capo della quale aveva preparato un laccio che infilava all’interno della bocca del maiale, passandolo all’interno dei denti lo stringeva sopra il grugno. Ancorando così l’animale, gli era possibile condurlo fuori dallo stabbio, dove altri cinque uomini si adoperavano per immobilizzarlo: quattro legavano una corda per ciascuna gamba e un altro li aiutava a stenderlo sopra la carriola. In quell’istante, il norcino, tenendo con la sinistra sempre il laccio stretto e corto, con la destra infilava l’apposito coltello nel collo per recidere la carotide e dissanguarlo nel più breve tempo possibile, facendo in modo di non farlo soffrire molto.

Contemporaneamente, una donna della famiglia porgeva, o si adoperava per mettere in una posizione adeguata, un secchio per raccoglierne il sangue; una volta raccolto, sarebbe andata a cuocerlo. Spesso questa operazione consisteva nell’immetterlo in una pentola d’acqua bollente; altre volte il sangue veniva adoperato per produrre delle leccornie o simili (come i baldóni, etc.).

Compiuta questa operazione, si trasportava l’animale nei pressi della caldera e si iniziava a spelarne l’epidermide versando l’acqua bollente sopra la cotenna e raschiando i peli con degli utensili artigianali, fabbricati prevalentemente con pezzi di falce vecchia e ritagliati in misura adeguata al lavoro da effettuare. Via via che si adoperava l’acqua bollente, la caldera veniva continuamente rabboccata in modo adeguato, perché essa non venisse a mancare fino al termine del lavoro.

Le setole cadute, successivamente, venivano diligentemente raccolte e, assieme alle unghie ed altre particolarità non edibili, venivano cedute a degli straccivendoli ambulanti che avrebbero avviato questi “materiali” alla costruzione di: pennelli, spazzole, sapone, etc.

A questo punto l’animale veniva portato sotto una grossa trave del portico della casa colonica o quella più adatta all’interno della cucina. Dopo aver praticato dei precisi tagli sulle zampe posteriori, all’altezza dello stinco, e aver infilato tra i tendini uno spuntone di legno, l’animale veniva ancorato e appeso per avviarne la lavorazione.

Si procedeva all’eviscerazione, avendo cura di salvaguardare il cuore, il fegato, il polmone, la lingua, l’omento (radesèl), l’intestino tenue (per poi insaccare le salsicce), la vescica (per insaccare successivamente il grasso appena strutto), etc., mentre con il resto dell’intestino si procedeva a mettere in atto la tecnica più consona a pulirlo e poi cucinarne il prodotto, ossia la tripa.

Per eseguire l’eviscerazione il norcino (el portziitèr) praticava un taglio longitudinale iniziando dall’alto e, mentre la lama scendeva, veniva aiutato a raccogliere le viscere da altre due persone che, servendosi della tavola che le donne normalmente usavano al lavatoio, la facevano scorrere seguendo il movimento della lama e raccogliendo delicatamente, via via, le viscere che uscivano.

Completata l’eviscerazione, si procedeva alla separazione della testa dal resto del corpo, tramite un taglio praticato a livello della cervice. Una volta separata, essa veniva appesa ad una trave, poco lontano, tramite un gancio. Il tutto rimaneva a colare per tutta la notte.

Al mattino, dopo aver adeguatamente collocato il tavolaccio nella cucina, vi si poneva sopra il corpo dell’animale per la successiva lavorazione. Si trattava di un’attrezzatura in legno, posta in maniera leggermente inclinata, con delle bandelle di contenimento e un’apertura per l’uscita delle varie colature di lavorazione.

A questo punto si cominciava a separare il lardo dalla carne, lasciandolo attaccato alla sua cotenna.

Si procedeva, poi, alla separazione degli arti e si procedeva alla conseguente scarnificazione delle ossa. Tali carni venivano subito distinte tra quelle al cui interno c’erano i tendini e destinate alla preparazione dei musetti e dei cotechini, mentre le carni più nobili (cioè quelle senza tendini o eventuali cartilagini, noduli o altro …) venivano destinate alla preparazione dei salami.

Si continuava con la scarnificazione della rimanente carcassa, procedendo per prima cosa alla scelta dei pezzi più pregiati: per esempio, quelli situati nella parte superiore della schiena venivano usati per fare l’ossocollo, mentre quelli situati nella parte della pancia venivano utilizzati per fare la pancetta. A questo punto, si proseguiva separando le costole dalla colonna alla quale erano unite; da questi due tronconi venivano asportate le carni presenti in superficie e queste andavano aggiunte a quelle destinate i salami.

Le ossa rimaste venivano salate e poste dentro un mastello, sul fondo del quale era stato precedentemente preparato un fitto reticolo di rami di salice senza corteccia. Questo serviva a fare in modo che le ossa non andassero mai a toccare gli eventuali umori (liquidi) derivati dalla colatura.

Quindi, la testa veniva privata delle orecchie e del grugno e venivano poi asportati la cotenna e il lardo ad essa attaccata.

Infine veniva separata la mandibola e si procedeva alla sezionatura in due parti del cranio, facendo attenzione a togliere diligentemente il cervello. Con esso le donne esperte preparavano un piatto che diventava una leccornia per i giovani.

Si proseguiva asportando la carne delle ossa (così separata dal cranio) e veniva aggiunta alla carne destinata ai musetti.

Durante tutte queste operazioni, cioè man mano che le carni venivano separate dalle ossa, queste ultime venivano poste sopra una tavola “di servizio” posta a lato del tavolaccio dove si operava, mentre si faceva molta attenzione a non mischiare (contaminandola con le altre) la carne destinata ai salami con quella destinata ai cotechini, come pure con quella destinata a realizzare luganeghe (ugàneghe), salsicce e fegatelli (figadèi), etc.

Una volta terminato questo lavoro, il norcino prendeva la cotenna con il suo lardo e la ritagliava in rettangoli regolari, riponendoli sulla tavola di servizio, pronti per la successiva salatura. I ritagli rimanenti venivano tagliati a strisce e, successivamente, il lardo veniva decorticato: questo veniva strutto (scaltrìo), mentre la cotenna e le orecchie (fatte anch’esse a striscioline) venivano macinate assieme alla carne destinata ai cotechini.

Si procedeva, quindi, alla macinazione (triturazione) e successiva concia delle carni destinate agli insaccati. Perché queste non venissero ‘inquinate’ le une con le altre, si trituravano per prime le carni destinate a fare salami e soppresse, poi quelle usate per fare musetti e cotechini, infine quelle destinate a realizzare salsicce e fegatelli.

La carne dei salami e della soppressa andava triturata con una grana piuttosto grossa, mentre i musetti, i cotechini, le salsicce, etc., dovevano avere una grana più fine.

 

LE DOSI DELLA CONCIA

Salatura del salame = 2,8 ÷ 3 %

Salatura dei musetti = 3 ÷ 3,2 %

Salatura delle salsicce = 2,5 ÷ 2,8 %

Pepe a discrezione del norcino

Aglio: 20 spicchi circa (venivano schiacciati e posti a macerare, inserendoli per due o tre giorni in una bottiglia di vino che veniva scossa più volte al giorno).

 

Dopo aver preparato le varie dosi della concia, si procedeva con la solita sequenza della lavorazione delle carni (su descritta).

Il macinato veniva disposto sul tavolaccio, a mo’ di polenta, e sopra veniva sparso il sale, poi il pepe e infine veniva versata la giusta dose del preparato di vino dal quale erano stati tolti i pezzettini d’aglio macerati. Il tutto veniva mescolato con buona lena, perché il risultato fosse perfettamente uniforme.

Sempre con la solita sequenza, i macinati venivano insaccati e legati come a memoria d’uomo si usava.

Per questa operazione, si procedeva adoperando sempre la solita macchina per macinare la carne ma, a questa, venivano tolti i coltelli usati per tranciare la carne e i vagli per il tipo di grana; dal foro di uscita della coclea, al posto di questi, di volta in volta, venivano posizionati degli imbuti di diverso diametro, in ragione del tipo d’insaccato da ottenere: più grande per le budella di bovino comperate appositamente per le soppresse, di medio diametro per quelle acquistate per fare i salami e musetti, e infine, veniva adoperato l’imbuto di diametro inferiore per fare salsicce, ugàneghe, figadèi; quest’imbuto era appositamente adatto ad infilare le budelline (viàne) ottenute dall’intestino tenue dello stesso animale.

Mentre un’aiutante inseriva il macinato e, girando la coclea della macchina, faceva uscire con un adeguato ritmo il macinato dal foro dell’imbuto sul quale era stato infilato il giusto budello, il norcino andava a legare e adeguatamente sezionare i diversi insaccati, ciascuno della propria e giusta dimensione, dimostrando una maestria che tutti ammiravano, in particolare, il giovanetto inesperto che, di buon mattino, aveva faticosamente percorso la lunga strada per andar a prendere il pesante stamp da saeàmi!!!

A meno che non avessero deciso di eseguire la successiva operazione qualche giorno più tardi, alla fine veniva eseguita la lavorazione degli insaccati non macinati: ossocollo, pancetta, linguale (engual), etc.

I pezzi di carne, adeguatamente pressati e speziati, venivano insaccati, invece, in un budello di dimensioni maggiori, adeguato a contenerli.

Quest’operazione veniva eseguita senza l’aiuto della “machina da saeàmi”; in pratica, era eseguita a mano e, al massimo, si adoperava un leggero e adeguato tubo per poter infilare meglio la carne nel budello.

A mano a mano che venivano fatti, i vari insaccati venivano posti appesi agli appositi supporti per qualche giorno in cucina e, in seguito, nel granaio, ben arieggiato.

Terminata la preparazione degli insaccati, venivano presi i rettangoli di lardo con la propria cotenna e, dopo un’abbondante salatura dalla parte del lardo, venivano posti uno contro l’altro, lasciando la cotenna all’esterno. Venivano così pressati da una doppia e fitta serie di pezzi di ramo posti in contrapposizione sulle reciproche superfici di cotenna e strettamente legati con forti vinchi di salice (venchi). Anche questi seguivano la collocazione degli insaccati.

In questo modo il lardo poteva essere mantenuto nel granaio per tutta la stagione fredda, mentre con i primi calori di febbraio veniva strutto e gli abbondanti ciccioli che derivavano da quest’operazione, anziché essere adoperati solo come condimento delle verdure (radicchio, lattuga, etc.), venivano offerti durante la questua che i ragazzi facevano a Carnevale “andando a ciciuìt”, espressione nata appunto dall’utilizzo di tali ciccioli perché, ai palati di un tempo, col loro gusto dolciastro, risultavano una vera leccornia.

 

 

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